Riportiamo di seguito un articolo interessantissimo di Chiara Curiale di aBetterPlace
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Secondo gli ultimi dati dell’ISTAT aggiornati al 20181, il settore non profit in Italia conta 359.574 istituzioni attive per un totale di 853.476 dipendenti1 e 5,5 milioni di volontari2. Il Terzo Settore si conferma, così, in continua espansione con un tasso di crescita annuale medio che si attesta attorno al 2%. Anche l’incidenza delle istituzioni non profit continua ad aumentare nel tempo: se nel 2011 gli enti del Terzo Settore rappresentavano il 5,8% del complesso delle imprese dell’industria e dei servizi, nel 2018 la percentuale è salita all’8,2%1.
Come si sostiene il Terzo Settore? Il 61% delle istituzioni non profit ha dimensioni economiche contenute e conta meno di 30mila euro a bilancio1. Nell’85,5% delle istituzioni non profit italiane la fonte di finanziamento principale deriva dal sostegno dei privati, tra cui rientrano i contributi degli aderenti, donazioni e vendita di beni e servizi2. I contributi e le donazioni, nello specifico, incidono per il 6,9% delle entrate2.
La stragrande maggioranza (78,2%) delle istituzioni del Terzo Settore sono orientate alla collettività e si occupano, tra le altre cose, di assistenza ed interventi socio-sanitari, integrazione sociale, tutela dei diritti umani e attività politica, istruzione, ricerca e formazione, attività ricreative, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio1. Quello del non profit è, senza ombra di dubbio, un settore essenziale per lo sviluppo economico e sociale del nostro paese, di cui non possiamo non occuparci.
Quanto doniamo al Terzo Settore?
Se guardiamo al World Giving Index (2019)3, quattro dei dieci paesi con le più alte percentuali di donazioni si trovano in Europa. A primeggiare è la Gran Bretagna che si colloca al secondo posto nel mondo, con una percentuale di donatori che arriva al 71%. Il dato resta all’incirca lo stesso anche per Malta (71%), Olanda (71%) e Irlanda (69%). La Georgia (6%), lo Yemen (6%) e la Grecia (7%) sono, invece, i tre paesi a livello globale in cui si dona meno.
Per donazione di denaro, l’Italia è al 33° posto nel mondo3: solo il 38% dei cittadini ha recentemente donato somme di denaro a scopo benefico. Tradotto in valori assoluti, nel 2018 sono circa 10 milioni gli italiani che hanno effettuato donazioni, con un aumento di 385mila unità rispetto all’anno precedente4. Nel solo 2016, oltre cinque miliardi di euro sono stati raccolti attraverso le donazioni in Italia5.
La tendenza a donare denaro in beneficenza aumenta con l’avanzare dell’età e, a partire dai 50 anni in poi, si dona di più3. Non ci sono particolari differenze tra generi: gli uomini e le donne hanno all’incirca la stessa probabilità di donare.
Perché doniamo (o non doniamo)? Le risposte della Behavioral Economics alle domande dei fundraiser
Perché ci sono paesi in cui quasi tutta la popolazione dona del denaro in beneficenza ed altri in cui non lo fa quasi nessuno? Cosa cambia? È possibile che pochissimi cittadini della Georgia o della Grecia abbiano a cuore il benessere degli altri e, al contrario, gli inglesi siano uno dei popoli più altruisti al mondo?
La risposta è chiara: no, non è così. È sicuramente necessario riconoscere il ruolo dei fattori sociali, storici e culturali di ogni paese; tuttavia, ci sembra utile indossare le lenti dell’Economia Comportamentale per guardare con un occhio diverso alle differenze tra paese e paese, portando gli strumenti di analisi offerti delle scienze del comportamento nell’ambito del Terzo Settore, in continua e rapida evoluzione.
Donare, come moltissimi altri comportamenti che compiamo quotidianamente, è frutto di decisioni prese in modo più o meno consapevole. La Behavioral Economics, la scienza che studia come gli esseri umani prendono le decisioni, ci insegna che siamo decisori facilmente soggetti ad errore. Il concetto di bounded rationality (razionalità limitata), introdotto dallo scienziato del comportamento Herbert Simon6, racchiude il presupposto chiave da cui parte l’Economia Comportamentale: le decisioni che prendiamo non sono pienamente razionali. Perché? Perché siamo umani e, in quanto tali, abbiamo risorse limitate: in fase di presa decisionale tendiamo ad attivare scorciatoie di pensiero (euristiche) che ci fanno cadere in errore. Gli errori di giudizio in cui tendiamo ad incappare sono sistematici e vengono chiamati dagli studiosi del comportamento bias.
I bias ci aiutano a comprendere perché alcuni donano e altri no. Molti di noi sono convinti che donare del denaro in beneficenza sia giusto – e vorremmo magari donarne di più! –, ma quanti di effettivamente lo fanno? Tra l’intenzione e l’azione intervengono molti fattori che ostacolano la donazione e la maggior parte di questi non ha niente a che fare con il sostenere o meno una determinata causa. È il contesto (fisico, verbale e sociale) che influenza le nostre decisioni. Come? Ecco alcuni bias che descrivono la presa decisionale sottostante al comportamento di dono.
- Costo della risposta: donare è un comportamento che ha un alto costo della risposta. Ai fini della donazione, infatti, ci viene richiesto di investire molte risorse (cognitive, economiche, in termini di tempo). Scegliere a chi donare, come, quando e quanto donare sono tutte decisioni che precedono il momento della donazione vero e proprio e che necessitano di un impegno da parte nostra. Le azioni con alto costo della risposta – donazioni comprese – hanno minori probabilità di essere messe in atto, a meno che qualcuno non si prenda la briga di semplificarci il compito.
- Avversione alle perdite: abbiamo dimostrato scientificamente che, per noi esseri umani, le perdite valgono più dei guadagni. Questo significa che, a livello psicologico, tendiamo a percepire una perdita come più dolorosa rispetto al piacere che ci provocherebbe un guadagno equivalente. Come questo si applica alla donazione? Ogni qualvolta doniamo del denaro ci stiamo privando di qualcosa che è nostro e, per questo motivo, la donazione è spesso accompagnata da un senso di perdita, che potrebbe ostacolarne l’esecuzione.
- Bias del presente: siamo focalizzati su quello che potremmo ottenere oggi, mentre le conseguenze a lungo termine del nostro comportamento ci appaiono sfumate e perdono di valore tanto più sono differite nel tempo. Come questo si applichi al fundraising è evidente: donare è l’emblema dei comportamenti le cui conseguenze non sono visibili nell’immediato; questo potrebbe essere uno dei tanti ostacoli che si frappongono tra l’intenzione e l’azione. Spesso, il donatore non sa neanche come verranno impiegati i suoi soldi e, anche quando gli viene esplicitato, questo non basta per metterlo realmente in contatto con le conseguenze di ciò che sta facendo.
- Effetto framing: tendiamo a farci influenzare dal formato di presentazione dell’informazione, anche quando ci sembra di star prendendo una decisione completamente razionale. Questo vale anche quando dobbiamo decidere se donare o meno: a seconda delle parole scelte e della formulazione della frase usata per la richiesta di donazione, per l’organizzazione cambia sensibilmente la probabilità di ricevere effettivamente il denaro. Formulare le frasi nel modo scorretto può costarci caro. È il caso di dire che la cornice cambia il quadro.
- Effetto spettatore: questa espressione si riferisce alla tendenza a non offrire aiuto in una situazione di difficoltà o di emergenza in presenza di altre persone, semplicemente perché si presuppone che saranno gli altri ad intervenire. La presenza degli altri non deve essere necessariamente fisica affinché il comportamento del singolo venga influenzato: il solo pensiero che sia qualcun altro a donare per la causa che mi sta a cuore può frenare il comportamento di dono. Di contro, bisogna anche tenere presente l’effetto della norma sociale, che descrive la nostra tendenza a conformarci al comportamento di chi ci sta vicino, nel bene e nel male. Trasmettere al donatore o potenziale donatore il messaggio “Riceviamo donazioni solo dal 3% dei visitatori al nostro sito” può portare gravi conseguenze per gli enti del settore non profit. La persona sentirà il proprio comportamento come disallineato da quello del gruppo di riferimento e, con molta probabilità, abbandonerà l’idea di donare.
- Il paradosso della scelta: per quanto possa sembrare controintuitivo, avere a disposizione troppe opzioni di scelta rende la scelta più difficile. Come già detto sopra, abbiamo risorse limitate; per questo motivo, avere molte opzioni tra cui scegliere non significa necessariamente avere più libertà. Al contrario, maggiore è il numero di opzioni che ci vengono proposte, più il costo della risposta cresce. Cosa succede, quindi, quando il donatore deve scegliere, tra centinaia di associazioni, quella/e a cui effettuare la donazione? Una volta superato il primo ostacolo, cosa succede se le opzioni che vengono proposte per la donazione sono troppe? Succede che, in molti casi, la donazione non va a buon fine. Semplificare la scelta è spesso necessario per raggiungere i donatori.
- Compassion fade: la compassione che proviamo tende a svanire all’aumentare del numero di persone bisognose di aiuto. Senza compassione, non c’è donazione. Senza donazione, l’ente non profit rischia di non avere fondi per portare avanti le attività che hanno alto impatto sociale. Essere troppo generici nella descrizione dei destinatari degli interventi può far avvertire al donatore la sensazione che le persone da aiutare siano troppe e distanti da sé, diminuendo la probabilità del dono.
- Evitamento esperienziale: le attività del terzo settore hanno spesso a che fare con la sofferenza umana, che si tratti di alleviarla o prevenirla. Le donazioni, in questi casi, vengono chieste evidenziando come siano utili per combattere la sofferenza. Le persone tendono però ad avere un rapporto paradossale con la sofferenza: cercano di ignorarla, di fingere che non esista. Si tratta di una non-soluzione, perché in questo modo la sofferenza non viene risolta, eppure è una strategia che nel breve periodo è malauguratamente efficace: come nascondere la polvere sotto il tappeto, evitare le esperienze che ci mettono a disagio è un modo per stare meglio, nell’immediato. Donare è una soluzione, ignorare il problema (e non donare) è purtroppo, spesso, un sollievo.
Quello che questi bias evidenziano è che in molti casi l’intenzione di donare è presente, ma non arriva a tradursi in azione. Le barriere che ostacolano il comportamento sono tante e rischiano di porre un freno alla nostra generosità. La buona notizia è che possiamo fare qualcosa: colmare il gap intenzione-azione e “spingere gentilmente” le persone a donare di più è possibile. Dall’Economia Comportamentale impariamo che piccoli cambiamenti nei messaggi, nel contesto, possono avere un grande impatto. Gli architetti delle scelte hanno a disposizione strumenti scientifici per indirizzare i comportamenti delle persone, avvicinandoli alle intenzioni e ai valori personali, senza lederne la libertà. Per impostare un’efficace campagna di raccolta fondi è necessario tenere conto degli errori decisionali del donatore, al fine di capire come è possibile trarne vantaggio o aggirarli. I principi dell’Economia Comportamentale e del Nudging sono già stati applicati con successo al mondo del Terzo Settore, spesso con risultati straordinari.
Resta, quindi, da chiedersi: perché i fundraisers non si servono di queste solide conoscenze scientifiche per provare a far crescere l’organizzazione in cui lavorano? Applicare gli strumenti dell’Economia Comportamentale al fundraising rappresenta un elemento di grande innovazione per il settore non profit. Gli architetti delle scelte lo sanno bene: rif.
6Harbert Simon (1982). Models of bounded rationality. The MIT Press.7Bernard Ross. Behavioural Economics in fundraising: Time to get on board?https://www.managementcentre.co.uk/fundraising/behavioural-economics-in-fundraising/